venerdì 31 marzo 2017

GLI ABITI ICONICI DEL '900

Sono fermamente convinta che non si possa capire ed  apprezzare il presente senza conoscere il passato. La storia è una vera e propria maestra di vita, ragione per cui  ho voluto scrivere questo articolo. Vi  illustrerò, in ordine cronologico, alcuni tra  i più importanti  abiti femminili che hanno segnato in maniera incisiva la storia della moda del ‘900.  Come potrete capire, moda e società camminano a braccetto, lo stile di un’epoca  è il risultato di una somma di modi di fare, eventi e trasformazioni: un vero e proprio atteggiamento sociale, un linguaggio percepito che racconta molto del suo preciso momento storico.



1903 Lola Montes, il primo abito da indossare senza corsetto. L’artefice di questa importante innovazione fu il sarto  parigino  Paul Poiret . Abito emblema  del rinnovamento dei costumi del nuovo secolo  e della liberazione delle forme femminili da ogni artificio e costrizione. Poiret eliminò completamente  l’ oggetto di tortura che per secoli tiranneggiava  il corpo delle donne (pensate che nel  ‘700 alcune dame arrivavano a morire perché il loro corsetto  era  talmente stretto che le costole trafiggevano il fegato…) sostituendolo  con reggiseno e giarrettiere oppure con una guaina, contenitiva sì ma morbida,  che aderiva al corpo in modo uniforme.  Elementi intimi più adatti ad un abbigliamento agile ed essenziale,  al passo con i tempi che stavano cambiando.



1915 Abito Delphos : nel 1909 lo stilista spagnolo Mariano Fortuny brevettò un particolare metodo di plissettatura della seta che gli consentiva di realizzare modelli d’abito lunghi e fluenti, subito apprezzati dall’élite artistica europea dell’epoca. Fu così che nel 1915 creò questo importante abito, e ne divenne  il suo fiore all’occhiello. Grazie a questa straordinaria plissettatura,  gli abiti permettevano una totale libertà di movimento,  pur sottolineando i contorni del corpo femminile. Una  lavorazione  usata ancora oggi;  per  alcuni stilisti moderni, come per esempio  Issey Miyake,  è diventato vero  un cavallo di battaglia.




1925 L’abito  “alla maschietta” in jersey, creato dalla geniale mente della regina della moda , colei ha inventato quasi tutto il guardaroba  della donna moderna,  Coco Chanel. Questa tipologia  d’abito divenne sinonimo di modernità ed emancipazione e netto rifiuto di ogni tipo di costrizione fisica, di corsetti e guaine. Pratico, corto appena sotto il ginocchio (lunghezza che all’epoca apparve quasi spudorata) che doveva stare rigorosamente coperto perché, come diceva Lei stessa, le ginocchia  erano la parte  più brutta di una donna. L’abito era realizzato in un particolare tessuto, il jersey, materiale pratico  e molto duttile,   fino ad allora  destinato unicamente alla confezione  di  indumenti  intimi.  Nonostante tutto, questo look non durò molto, a causa della grave crisi del 1929 quando non era più tempo di mostrarsi allegre e provocanti. Sarebbero passiti circa 40 anni prima che gli orli tornassero ad accorciarsi. Pensate a cosa sarebbe oggi il nostro guardaroba senza i praticissimi capi in jersey, a cominciare dalle t-shirt.



1926  Little Black Dress:  IL vestito per eccellenza. Il tubino nero,  minimale, versatile,  accessibile ed elegante quando serve, the little black dress  (alla francese:  Petite Robe Noire) è diventato da quando è nato, il capo must che ogni donna dovrebbe avere nel proprio guardaroba. Fu ancora lei,   la lungimirante Coco Chanel , a proporre per prima questo abito, ispirandosi ai vestiti-grembiuli indossati da lei e dalle sue compagne nell’orfanotrofio dove visse dagli 11 ai 18 anni,   sdoganando definitivamente il nero, colore che prima di allora  si indossava di giorno solo per il lutto. Comparve per la prima volta su Vogue America nell’ottobre 1926,  descritto come l’abito che sicuramente sarebbe diventato la divisa delle donne di classe, vicino ad un mare di abiti sofisticatissimi e di colori sgargianti, come voleva la moda del primo dopoguerra. Il successo fu immediato, il LBD diventò l’uniforme per le donne di tutto il mondo di qualunque estrazione sociale, dalle più ricche che si potevano permettere  di acquistarne uno originale,  alle meno abbienti che imitarono subito i modelli della Maison parigina, destreggiandosi con ago e filo. Fu poi nel 1961 che questo abito guadagnò il posto d’onore nell’Olimpo dei capi più importanti del guardaroba, per mano di Hubert De Givenchy, quando vestì l’indiscussa icona di stile Audrey Hepburn per il film culto  “Colazione da Tiffany”. Quello tra il Couturier e la bella attrice fu un sodalizio professionale, accompagnato ad un’amicizia fraterna  che durò negli anni, lui disegnò per Audrey, più di 250 LBD, che indossò sia nella vita priva che sui set dei suoi film.



1931 L’abito da dea: la sua creatrice fu Madeleine Vionnet  (anche lei francese) ispirata dalle  vesti dell’antica Grecia,  intuì  che il tessuto poteva essere usato non solo verticalmente ma anche in diagonale, dando origine ai tagli in sbieco. Questo rivoluzionario modo di lavorare i tessuti, oltre a permettere una maggior facilità di drappeggio,  consentiva agli abiti di fluttuare intorno al corpo, mettendo in rilievo le curve ed accentuandone le forme pur non segnandole troppo, dando la possibilità alle donne di esprimere una femminilità meno agressiva.  Da allora il taglio del tessuto in sbieco aprì una  pagina  nuova  della creazione di modelli, venne  usato da tutti i couturier, permettendo di realizzare linee  nuove e fantasiose, una tra tutte quella della gonna a ruota.



1947 il “New Look” : venne battezzato così dalla direttrice di allora della rivista   “Harper’s Bazaar” Carmel Snow,  questo nuovo modello presentato da Christian Dior diventò un vero e proprio fenomeno  post bellico,  rivoluzionando la silhouette della donna che dagli inizi del ‘900 si era creata.  Spalle morbide, vitino da vespa (Dior reintrodusse l’uso del corsetto) e gonna ampia, ampissima, alcuni modelli come il Diorama (In foto) avevano un orlo che poteva arrivare a misurare  fino a 40 metri (il taglio era in sbieco, esattamente una gonna a ruota).  Dior riportò sfarzo e lusso nel mondo della moda, riesumando una figura femminile dal sapore quasi ottocentesco, in totale  antitesi con la concezione di modernità di Mademoiselle Chanel.  Fece subito dimenticare la tendenza al risparmio e le linee austere della guerra. Fu immediatamente un successo colossale, tanto che la Maison riusciva a mala pena a soddisfare tutte le prenotazioni.




1958 il tailleur Chanel. Pur non essendo un vero e proprio abito, ho voluto inserire questo indumento nella lista per l’impatto rivoluzionario che ebbe all’epoca, non solo sull’abbigliamento femminile, ma anche sulla percezione che il mondo aveva delle donne. Il classico tailleur Chanel con spalle squadrate e gonna che terminava sulla parte alta del polpaccio,  nacque negli anni 30  ma, fu alla fine degli anni ‘50  che ebbe un successo incredibile, diventando definitivamente la “divisa” della donna emancipata e di classe,  cioè  quando Coco Chanel  cominciò ad utilizzare il tweed ed altri tessuti  fino al allora considerati tipici del guardaroba maschile e proletario, impreziosendoli con bottoni in oro, inserti e galloni in seta e a volte anche in pelliccia;  divenne uno status per le prime donne in carriera. Chanel  permise di disfarsi di tutto ciò che era bizzarro, troppo frivolo e pesante ,  di vestirsi per se stesse e per stare  finalmente  comode.  Questo genio indiscusso della moda contribuì a forgiare l’immagine femminile come la concepiamo oggi, la donna emancipata, indipendente   e dinamica. Piccola curiosità:  Per il modello della sua mitica giacca, attualissima e di grande tendenza anche oggi,   si ispirò alla divisa indossata dal ragazzo dell’ascensore di  un hotel di Salisburgo.



1965 l’abito Mondrian:  Creato da  Yves Saint Lauren, è  una delle tante interpretazioni del mondo moderno, questa volta  sfruttando l’estetica delle Belle Arti. Per il  primo esempio di astrazione nel fashion design, YSL scelse il pittore olandese  Piet Mondrian (1872-1944) i cui dipinti erano diventati simbolo internazionale di modernità e gusto. Apparso sulla copertina di Vogue nel 1965, questo abito  faceva parte di una serie di modelli con lo stesso tema e  puntava  a catturare la vera essenza della figura umana.  Formato da pannelli di tessuto in lana bianchi, neri e  colori primari cuciti insieme,   nascondeva  volutamente le forme del corpo,  ottenendo come  risultato  un rigoroso esempio di ordine, assoluta bellezza ed eleganza in tanta semplicità.  Da questo momento la moda diventava davvero moderna e iniziava a guardare   al futuro come non aveva fatto mai. Grazie ad Yves Saint Laurent, le opere di Mondrian rivissero anche nei decenni successivi in molte collezioni di altri couturier e creatori di calzature: tra tanti ricordiamo Dolce e Gabbana, Andrea Filster, e , nel 2010 la collezione di costumi da bagno di Sarah Schofield, popolare  talentuosa  fashion designer australiana, subito imitata in tutto il mondo.



1965 la  minigonna: I tempi erano cambiati,  l’essere giovane da  stato biologico diventava a tutti gli effetti uno stato sociale, ora l’ultima parola spettava alla  nuova generazione.   Questa volta fu Londra, città di grande fermento sociale,  per mano di Mary Quant, ispirata dalle  creazioni di Andrè  Courrèges,  ad  esprimersi  a chiare lettere, inventando una lunghezza d’abito mai vista prima, la minigonna.  Contrariamente a quanto si pensa, il messaggio che la minigonna mandò al suo esordio  non fu  quello di libertà sessuale   “Il corpo è mio e lo gestisco io”,  tutto ciò avvenne solo qualche anno dopo, quando ormai la nuova lunghezza degli abiti si era ampiamente consolidata e sedimentata nei guardaroba delle ragazze più cool. Mary Quant scelse, non a caso, per presentare al mondo la sua creazione, Twiggy, la prima modella magrissima e senza forme, e la scelse proprio per questo. Twiggy aveva un fisico etereo ed infantile, veniva fotografata  indossando i miniabiti della celebre stilista, abbinati a  scarpe basse e calze colorate,  ed era  questo ciò che le giovani  volevano dire: “Mamma, piuttosto che diventare come te (rifiuto totale del ruolo classico della donna angelo del focolare  tutta casa, chiesa  e famiglia) resto bambina!” Il successo non tardò ad arrivare, la minigonna divenne immediatamente  la nuova divisa della generazione di ragazze che si era guadagnata  a suon di contestazioni, una voce in capitolo.



1966 abito a dischi metallici. Nella frenetica ripresa tecnologica e produttiva, l’utilizzo nella moda di materiali come  il  pvc e l’alluminio, generò un grande consenso ed un nuovo linguaggio visivo. Lo stilista di origini spagnole ma operante a Parigi  Paco Rabanne,  realizzò una versione contemporanea della cotta di maglia usata al tempo dei cavalieri medioevali, dimostrando come anche uno dei  materiali più rigidi come il metallo, poteva essere usato nella creazione di abiti. Il risultato fu uno scintillio che tintinnava attorno al corpo della donna, producendo in passerella uno spettacolo che assomigliava di più ad un razzo spaziale che ad un capo di alta moda. L’abito a dischi non era certamente comodo da portare ma, rappresentava una giocosa visione del futuro che Paco Rabanne avrebbe reso immortale nei costumi disegnati per Jane Fonda nel film culto  “Barbarella”.



1968 la sahariana: Ancora una volta  Yves Saint Laurent (che dopo  Coco Chanel  fu il secondo grande inventore del guardaroba della donna moderna) , questo abito diede un’immagine tutta nuova al tradizionale stile coloniale, utilizzando tonalità neutre ispirate a camicie e pantaloni cachi. YSL creò un look innovativo che esprimeva sicurezza pur affidandosi a colori molto sobri. Grazie ai bottoni, alle tasche ed alle cinture, la sahariana divenne un capo molto di tendenza, e la donna, per la prima volta, da preda diventò cacciatore. Oggi la sahariana costituisce un genere a sé, reinventato anno dopo anno,  fino ad essere considerato un classico del guardaroba , e sta proprio qui la genialità del Designer!  Nello stesso anno, il Maestro  propose dalle sue passerelle  altri capi d’abbigliamento destinati a rimanere   per sempre  nella storia e nei nostri guardaroba, lo smoking  femminile ed il nude look.



 1973 wrap dress:  La vestaglietta in jersey legata in vita era il look per eccellenza della metà anni ’70 e non lo era solo per comodità ma anche  per una questione di fermezza e praticità. Questo straordinario abito garantì alla sua ideatrice, la belga Diane Von Furstemberg   che viveva e lavorava a New York, una brillante ed illustre carriera. Quintessenza della semplicità, questo abito è facilissimo da mettere ed anche da togliere, conseguenza inevitabile del femminismo e del consumismo. Fu lanciato in un’epoca in cui le donne esprimevano una nuova sicurezza in se stesse, nel lavoro, nel tempo libero ed in camera da letto. Nel 1997 la Furstemberg rilanciò la sua linea e da allora divenne l’abito da giorno del decennio, tutte le catene d’abbigliamento ne proponevano una loro versione, ancora oggi  questo modello viene molto usato ed apprezzato.



1981 l’abito nuziale di Diana: La prima cosa che si intravedeva man mano che la carrozza  reale si avvicinava  alla cattedrale di Saint Paul, era il viso della futura principessa avvolto in una nuvola di bianco, incorniciato dal profilo dorato del finestrino da cui salutava la folla. Poi quando scese  appoggiando i piedi sul tappeto rosso, l’abito si gonfiò e con l’aiuto dei due stilisti inglesi che l’avevano realizzato  David ed Elizabeth  Emanuel, venne srotolato anche lo strascico che sembrava non finire mai.  Me lo ricordo benissimo, ero una  ragazzina e  non mi scollai nemmeno un minuto dal televisore che trasmetteva  le immagini  del matrimonio reale in diretta.  Da quel giorno i gusti e le aspirazioni delle spose non sarebbero più stati gli stessi. Era l’abito da sogno che indossavano le principesse delle fiabe, portò alla ribalta gonne ampie e rouches.  Grazie alle decine di metri di tulle, seta color avorio e taffettà, alla massa di nastri, fiocchi e pizzi, alle maniche a sbuffo, al collo fru-fru , l’abito era un’espressione di opulenza e di eccesso che anticipava le tendenze del decennio a venire.



2001 l’abito di Julia Roberts alla premiazione degli oscar. Alla cerimonia di premiazione del 2001 Julia Roberts  si presentò per ritirare il meritato premio come miglior attrice protagonista per  il film “Erin Brockovich” con un meraviglioso abito di Valentino, solenne, elegantissimo che evocava l’epoca d’oro di Hollywood, fin qui nulla di strano ma, se pensiamo che l’abito non era nuovo di zecca e cucito appositamente come accadeva per tutte le star, ma bensì di quasi venti anni prima, del 1982. La scelta dell’attrice fece scalpore, sembrava voler dire che era la sua personalità a contare di più, l’armonia tra lei e l’abito scelto, rafforzando ancora di più la sua già spiccatissima personalità. Questa mossa contribuì in modo significativo a legittimare l’ascesa del vintage come scelta di moda non solo accettabile ma altamente desiderabile, oculata e fortemente chic, come lo è ancora oggi.  Da allora anche le dive cominciarono a rovistare tra vecchi bauli e mercatini dell’usato.




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