Sono fermamente convinta che non si possa capire ed apprezzare il presente senza conoscere il
passato. La storia è una vera e propria maestra di vita, ragione per cui ho voluto scrivere questo articolo. Vi illustrerò, in ordine cronologico, alcuni tra
i più importanti abiti femminili che hanno segnato in maniera incisiva
la storia della moda del ‘900. Come
potrete capire, moda e società camminano a braccetto, lo stile di un’epoca è il risultato di una somma di modi di fare,
eventi e trasformazioni: un vero e proprio atteggiamento sociale, un linguaggio
percepito che racconta molto del suo preciso momento storico.
1903 Lola Montes,
il primo abito da indossare senza corsetto. L’artefice di questa importante
innovazione fu il sarto parigino Paul Poiret . Abito emblema del rinnovamento dei costumi del nuovo secolo e della liberazione delle forme femminili da
ogni artificio e costrizione. Poiret eliminò completamente l’ oggetto di tortura che per secoli tiranneggiava
il corpo delle donne (pensate che nel ‘700 alcune dame arrivavano a morire perché il
loro corsetto era talmente stretto che le costole trafiggevano
il fegato…) sostituendolo con reggiseno
e giarrettiere oppure con una guaina, contenitiva sì ma morbida, che aderiva al corpo in modo uniforme. Elementi intimi più adatti ad un abbigliamento
agile ed essenziale, al passo con i
tempi che stavano cambiando.
1915 Abito Delphos
: nel 1909 lo stilista spagnolo Mariano Fortuny brevettò un particolare metodo
di plissettatura della seta che gli consentiva di realizzare modelli d’abito
lunghi e fluenti, subito apprezzati dall’élite artistica europea dell’epoca. Fu
così che nel 1915 creò questo importante abito, e ne divenne il suo fiore all’occhiello. Grazie a questa
straordinaria plissettatura, gli abiti
permettevano una totale libertà di movimento, pur sottolineando i contorni del corpo
femminile. Una lavorazione usata ancora oggi; per alcuni stilisti moderni, come per esempio Issey Miyake, è diventato vero un cavallo di battaglia.
1925 L’abito “alla maschietta” in jersey, creato dalla
geniale mente della regina della moda , colei ha inventato quasi tutto il
guardaroba della donna moderna, Coco Chanel. Questa tipologia d’abito divenne sinonimo di modernità ed
emancipazione e netto rifiuto di ogni tipo di costrizione fisica, di corsetti e
guaine. Pratico, corto appena sotto il ginocchio (lunghezza che all’epoca
apparve quasi spudorata) che doveva stare rigorosamente coperto perché, come
diceva Lei stessa, le ginocchia erano la
parte più brutta di una donna. L’abito era
realizzato in un particolare tessuto, il jersey, materiale pratico e molto duttile, fino ad allora destinato unicamente alla confezione di indumenti intimi.
Nonostante tutto, questo look non durò molto, a causa della grave crisi
del 1929 quando non era più tempo di mostrarsi allegre e provocanti. Sarebbero
passiti circa 40 anni prima che gli orli tornassero ad accorciarsi. Pensate a
cosa sarebbe oggi il nostro guardaroba senza i praticissimi capi in jersey, a
cominciare dalle t-shirt.
1926 Little Black Dress: IL vestito per eccellenza. Il tubino nero, minimale, versatile, accessibile ed elegante quando serve, the
little black dress (alla francese: Petite Robe Noire) è diventato da quando è
nato, il capo must che ogni donna dovrebbe avere nel proprio guardaroba. Fu
ancora lei, la lungimirante Coco Chanel
, a proporre per prima questo abito, ispirandosi ai vestiti-grembiuli indossati
da lei e dalle sue compagne nell’orfanotrofio dove visse dagli 11 ai 18
anni, sdoganando definitivamente il
nero, colore che prima di allora si
indossava di giorno solo per il lutto. Comparve per la prima volta su Vogue
America nell’ottobre 1926, descritto
come l’abito che sicuramente sarebbe diventato la divisa delle donne di classe,
vicino ad un mare di abiti sofisticatissimi e di colori sgargianti, come voleva
la moda del primo dopoguerra. Il successo fu immediato, il LBD diventò
l’uniforme per le donne di tutto il mondo di qualunque estrazione sociale,
dalle più ricche che si potevano permettere
di acquistarne uno originale, alle meno abbienti che imitarono subito i
modelli della Maison parigina, destreggiandosi con ago e filo. Fu poi nel 1961
che questo abito guadagnò il posto d’onore nell’Olimpo dei capi più importanti
del guardaroba, per mano di Hubert De Givenchy, quando vestì l’indiscussa icona
di stile Audrey Hepburn per il film culto
“Colazione da Tiffany”. Quello tra il Couturier e la bella attrice fu un
sodalizio professionale, accompagnato ad un’amicizia fraterna che durò negli anni, lui disegnò per Audrey,
più di 250 LBD, che indossò sia nella vita priva che sui set dei suoi film.
1931 L’abito da dea:
la sua creatrice fu Madeleine Vionnet (anche lei francese) ispirata dalle vesti dell’antica Grecia, intuì
che il tessuto poteva essere usato non solo verticalmente ma anche in
diagonale, dando origine ai tagli in sbieco. Questo rivoluzionario modo di
lavorare i tessuti, oltre a permettere una maggior facilità di drappeggio, consentiva agli abiti di fluttuare intorno al
corpo, mettendo in rilievo le curve ed accentuandone le forme pur non
segnandole troppo, dando la possibilità alle donne di esprimere una femminilità
meno agressiva. Da allora il taglio del
tessuto in sbieco aprì una pagina nuova della creazione di modelli, venne usato da tutti i couturier, permettendo di realizzare
linee nuove e fantasiose, una tra tutte
quella della gonna a ruota.
1947 il “New Look” :
venne battezzato così dalla direttrice di allora della rivista “Harper’s Bazaar” Carmel Snow, questo nuovo modello presentato da Christian
Dior diventò un vero e proprio fenomeno post bellico, rivoluzionando la silhouette della donna che
dagli inizi del ‘900 si era creata.
Spalle morbide, vitino da vespa (Dior reintrodusse l’uso del corsetto) e
gonna ampia, ampissima, alcuni modelli come il Diorama (In foto) avevano un
orlo che poteva arrivare a misurare fino
a 40 metri (il taglio era in sbieco, esattamente una gonna a ruota). Dior riportò sfarzo e lusso nel mondo della
moda, riesumando una figura femminile dal sapore quasi ottocentesco, in
totale antitesi con la concezione di
modernità di Mademoiselle Chanel. Fece
subito dimenticare la tendenza al risparmio e le linee austere della guerra. Fu
immediatamente un successo colossale, tanto che la Maison riusciva a mala pena
a soddisfare tutte le prenotazioni.
1958 il tailleur
Chanel. Pur non essendo un vero e proprio abito, ho voluto inserire questo
indumento nella lista per l’impatto rivoluzionario che ebbe all’epoca, non solo
sull’abbigliamento femminile, ma anche sulla percezione che il mondo aveva
delle donne. Il classico tailleur Chanel con spalle squadrate e gonna che
terminava sulla parte alta del polpaccio,
nacque negli anni 30 ma, fu alla
fine degli anni ‘50 che ebbe un successo
incredibile, diventando definitivamente la “divisa” della donna emancipata e di
classe, cioè quando Coco Chanel cominciò ad utilizzare il tweed ed altri
tessuti fino al allora considerati
tipici del guardaroba maschile e proletario, impreziosendoli con bottoni in
oro, inserti e galloni in seta e a volte anche in pelliccia; divenne uno status per le prime donne in
carriera. Chanel permise di disfarsi di
tutto ciò che era bizzarro, troppo frivolo e pesante , di vestirsi per se stesse e per stare finalmente comode.
Questo genio indiscusso della moda contribuì a forgiare l’immagine femminile
come la concepiamo oggi, la donna emancipata, indipendente e
dinamica. Piccola curiosità: Per il
modello della sua mitica giacca, attualissima e di grande tendenza anche oggi, si
ispirò alla divisa indossata dal ragazzo dell’ascensore di un hotel di Salisburgo.
1965 l’abito Mondrian:
Creato da Yves Saint Lauren, è una delle tante interpretazioni del mondo
moderno, questa volta sfruttando l’estetica
delle Belle Arti. Per il primo esempio
di astrazione nel fashion design, YSL scelse il pittore olandese Piet Mondrian (1872-1944) i cui dipinti erano
diventati simbolo internazionale di modernità e gusto. Apparso sulla copertina
di Vogue nel 1965, questo abito faceva
parte di una serie di modelli con lo stesso tema e puntava a catturare la vera essenza della figura
umana. Formato da pannelli di tessuto in
lana bianchi, neri e colori primari
cuciti insieme, nascondeva volutamente le forme del corpo, ottenendo come risultato un rigoroso esempio di ordine, assoluta
bellezza ed eleganza in tanta semplicità. Da questo momento la moda diventava davvero
moderna e iniziava a guardare al futuro come non aveva fatto mai. Grazie ad
Yves Saint Laurent, le opere di Mondrian rivissero anche nei decenni successivi
in molte collezioni di altri couturier e creatori di calzature: tra tanti
ricordiamo Dolce e Gabbana, Andrea Filster, e , nel 2010 la collezione di
costumi da bagno di Sarah Schofield, popolare talentuosa fashion designer australiana, subito imitata
in tutto il mondo.
1965 la minigonna: I tempi erano cambiati, l’essere giovane da stato biologico diventava a tutti gli effetti
uno stato sociale, ora l’ultima parola spettava alla nuova generazione. Questa volta fu Londra, città di grande
fermento sociale, per mano di Mary Quant,
ispirata dalle creazioni di Andrè Courrèges, ad
esprimersi a chiare lettere,
inventando una lunghezza d’abito mai vista prima, la minigonna. Contrariamente a quanto si pensa, il messaggio
che la minigonna mandò al suo esordio
non fu quello di libertà sessuale
“Il
corpo è mio e lo gestisco io”, tutto ciò
avvenne solo qualche anno dopo, quando ormai la nuova lunghezza degli abiti si era
ampiamente consolidata e sedimentata nei guardaroba delle ragazze più cool.
Mary Quant scelse, non a caso, per presentare al mondo la sua creazione,
Twiggy, la prima modella magrissima e senza forme, e la scelse proprio per
questo. Twiggy aveva un fisico etereo ed infantile, veniva fotografata indossando i miniabiti della celebre
stilista, abbinati a scarpe basse e
calze colorate, ed era questo ciò che le giovani volevano dire: “Mamma, piuttosto che diventare
come te (rifiuto totale del ruolo classico della donna angelo del focolare tutta casa, chiesa e famiglia) resto bambina!” Il successo non
tardò ad arrivare, la minigonna divenne immediatamente la nuova divisa della generazione di ragazze
che si era guadagnata a suon di
contestazioni, una voce in capitolo.
1966 abito a dischi
metallici. Nella frenetica ripresa tecnologica e produttiva, l’utilizzo
nella moda di materiali come il pvc e l’alluminio, generò un grande consenso
ed un nuovo linguaggio visivo. Lo stilista di origini spagnole ma operante a
Parigi Paco Rabanne, realizzò una versione contemporanea della
cotta di maglia usata al tempo dei cavalieri medioevali, dimostrando come anche
uno dei materiali più rigidi come il
metallo, poteva essere usato nella creazione di abiti. Il risultato fu uno
scintillio che tintinnava attorno al corpo della donna, producendo in
passerella uno spettacolo che assomigliava di più ad un razzo spaziale che ad
un capo di alta moda. L’abito a dischi non era certamente comodo da portare ma,
rappresentava una giocosa visione del futuro che Paco Rabanne avrebbe reso
immortale nei costumi disegnati per Jane Fonda nel film culto “Barbarella”.
1968 la sahariana:
Ancora una volta Yves Saint Laurent (che
dopo Coco Chanel fu il secondo grande inventore del guardaroba
della donna moderna) , questo abito diede un’immagine tutta nuova al
tradizionale stile coloniale, utilizzando tonalità neutre ispirate a camicie e
pantaloni cachi. YSL creò un look innovativo che esprimeva sicurezza pur
affidandosi a colori molto sobri. Grazie ai bottoni, alle tasche ed alle
cinture, la sahariana divenne un capo molto di tendenza, e la donna, per la
prima volta, da preda diventò cacciatore. Oggi la sahariana costituisce un
genere a sé, reinventato anno dopo anno,
fino ad essere considerato un classico del guardaroba , e sta proprio
qui la genialità del Designer! Nello
stesso anno, il Maestro propose dalle
sue passerelle altri capi d’abbigliamento
destinati a rimanere per sempre
nella storia e nei nostri guardaroba, lo smoking femminile ed il nude look.
1973 wrap dress: La vestaglietta in jersey legata in vita era
il look per eccellenza della metà anni ’70 e non lo era solo per comodità ma
anche per una questione di fermezza e
praticità. Questo straordinario abito garantì alla sua ideatrice, la belga
Diane Von Furstemberg che viveva e
lavorava a New York, una brillante ed illustre carriera. Quintessenza della
semplicità, questo abito è facilissimo da mettere ed anche da togliere,
conseguenza inevitabile del femminismo e del consumismo. Fu lanciato in
un’epoca in cui le donne esprimevano una nuova sicurezza in se stesse, nel
lavoro, nel tempo libero ed in camera da letto. Nel 1997 la Furstemberg
rilanciò la sua linea e da allora divenne l’abito da giorno del decennio, tutte
le catene d’abbigliamento ne proponevano una loro versione, ancora oggi questo modello viene molto usato ed
apprezzato.
1981 l’abito nuziale
di Diana: La prima cosa che si intravedeva man mano che la carrozza reale si avvicinava alla cattedrale di Saint Paul, era il viso
della futura principessa avvolto in una nuvola di bianco, incorniciato dal
profilo dorato del finestrino da cui salutava la folla. Poi quando scese appoggiando i piedi sul tappeto rosso,
l’abito si gonfiò e con l’aiuto dei due stilisti inglesi che l’avevano
realizzato David ed Elizabeth Emanuel, venne srotolato anche lo strascico
che sembrava non finire mai. Me lo
ricordo benissimo, ero una ragazzina e non mi scollai nemmeno un minuto dal
televisore che trasmetteva le
immagini del matrimonio reale in
diretta. Da quel giorno i gusti e le
aspirazioni delle spose non sarebbero più stati gli stessi. Era l’abito da
sogno che indossavano le principesse delle fiabe, portò alla ribalta gonne
ampie e rouches. Grazie alle decine di
metri di tulle, seta color avorio e taffettà, alla massa di nastri, fiocchi e
pizzi, alle maniche a sbuffo, al collo fru-fru , l’abito era un’espressione di
opulenza e di eccesso che anticipava le tendenze del decennio a venire.
2001 l’abito di Julia
Roberts alla premiazione degli oscar. Alla cerimonia di premiazione del
2001 Julia Roberts si presentò per
ritirare il meritato premio come miglior attrice protagonista per il film “Erin Brockovich” con un meraviglioso
abito di Valentino, solenne, elegantissimo che evocava l’epoca d’oro di Hollywood,
fin qui nulla di strano ma, se pensiamo che l’abito non era nuovo di zecca e
cucito appositamente come accadeva per tutte le star, ma bensì di quasi venti
anni prima, del 1982. La scelta dell’attrice fece scalpore, sembrava voler dire
che era la sua personalità a contare di più, l’armonia tra lei e l’abito
scelto, rafforzando ancora di più la sua già spiccatissima personalità. Questa
mossa contribuì in modo significativo a legittimare l’ascesa del vintage come
scelta di moda non solo accettabile ma altamente desiderabile, oculata e
fortemente chic, come lo è ancora oggi.
Da allora anche le dive cominciarono a rovistare tra vecchi bauli e
mercatini dell’usato.
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